“Ci sono film che non si vedono su di uno schermo. Ci sono scene che sei obbligato a vivere e sulle quali non puoi chiudere gli occhi. Che ti porti dentro e che riaffiorano nei momenti di quiete, oppure, portate da una scintilla casuale. Ogni vita per miserevole che sia è l'unico vero film del quale saremo mai attori e registi. Nel quale non sempre riusciremo a decidere ruoli e finali ma che porteremo sempre con noi, impresso nella memoria più profonda, unica ed esclusiva. Nessuno potrà interpretarci né leggerci bene quanto potremo fare noi stessi che siamo i soli ad avere la visione più ampia e totale delle cose. Il nostro pianto, il nostro dolore, rimangono incisi più a fondo di qualunque altra gioia perché è solo da questi che può nascere la forza di reagire. La nostra carezza più intima sarà il ripercorrere questi fatti scandalosi o tragici con la tenerezza di chi segue fatti destinati ad essere, con la sola certezza che siano inevitabili. Essere per continuare ad essere.”

giovedì 22 settembre 2016

Perfetti sconosciuti


Di Paolo Genovese
Italia, 2016
Sette amici si incontrano a cena e la complicità, la noia o forse la curiosità li portano a fare un gioco che ne metterà a rischio le rispettive esistenze…forse.
Lele, Carlotta, Peppe, Bianca, Eva, Rocco e Cosimo non sembrano avere molto da nascondere eppure, condividere chiamate e messaggi ricevuti durante la cena sui propri cellulari, scoprirà un mondo nascosto dentro ognuno di loro.
Paolo Genovese apre le porte della “scatola nera” dell’italiano medio, il cellulare, attribuendogli un potere assoluto e catartico, in grado di tracciare il profilo del possessore fino a diventarne possessore a sua volta. Il proprietario posseduto e quindi schiavo dei segreti contenuti in una Sim: foto, numeri, conversazioni, persone virtuali che esistono grazie al potere esercitato sui riceventi. Un potere sempre più grande quanto più estremi sono i segreti che cela. Ma se per gioco, durante il tempo di un’eclisse, i misteri dovessero venire a galla in un gioco al massacro, nessuno sarebbe più lo stesso. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, laddove il peccato risulta il convenzionalismo che rende schiavi al punto che la trasgressione è la ricerca di libertà. Sette personaggi, cinque coinvolti ed invischiati in intrecci morbosi, uno saggio e poi Bianca; la quint’essenza di quella libertà, ingenuità e trasparenza che dovrebbe restarci attaccata addosso per la vita e che invece perdiamo inquinati dai vizi che ci accadono strada facendo. Un gioco al massacro che coinvolge e sconvolge i protagonisti in un “Carnage” più bonario della versione di Polanski ma che punta ugualmente il dito contro manie e fobie del nostro tempo. Man mano che l’eclisse si compie i misteri crescono e detonano fino a far piazza pulita di ciò che rimane dei buoni sentimenti ma col suo finire ecco che magicamente si piomba in uno stato onirico indefinito tanto e tale da pensare “sogno o son desto”? La realtà si confonde con “il sarebbe potuto accadere” e lascia il dubbio allo spettatore su cosa nella vita sia necessario: convenzioni o verità. Io non ho dubbi e voi?

Un plot già visto e forse eccessivo ma mai assurdo. Un cast compatto ed affiatato, una boccata d’aria fresca con attori perfetti nella loro normalità. Bravi.

mercoledì 1 giugno 2016

La pazza gioia

di Paolo Virzì
Italia, 2016

Beatrice è bionda, ricchissima e raffinata. Donatella è bruna, tatuata e povera. Cosa le unisce? Sono pazze!
O almeno “ritenute tali da alcune perizie”. Chiuse in un centro riabilitativo nella campagna Toscana, stringono un’amicizia fatta di contrasti e incomprensioni, di profonde differenze d’estrazione sociale ed educazione ma solida. Al punto da fuggire insieme in un’avventura rocambolesca che le porterà da una cittadina all’altra in cerca della felicità.
Virzì ha fatto il salto, già da qualche anno e sebbene i suoi film mantengano alcuni stralci di leggerezza, ormai vanno a fondo e tagliano più di una lama affilata. “La pazza gioia” condensa alcuni tra i temi più commoventi dell’essere umano: maternità, depressione, solitudine, emarginazione e lo fa descrivendo un microcosmo alieno ma regolato dalle stesse regole della società “reale”. La storia non è troppo originale e i panorami sono noti ai suoi spettatori ma la precisione certosina con la quale sono costruiti i personaggi, tutti, compresi le comparse e i camei illustri come Anna Galiena e Marco Messeri, rendono questa pellicola una piccola gioia per gli occhi e per l’anima che commuove profondamente e diverte. Diverte la leggiadra follia di Beatrice, contessa mai dimentica del ruolo che resta capricciosa e viziata anche tra le mura sudicie del centro, convinta che la vera felicità sia nelle cose belle; commuove la solitudine di Donatella, nata sfortunata che paga le scelte di pancia che ha fatto fino a quel momento e se le porta scritte addosso e nel cuore. Entrambe però lucide ed intelligenti, a dimostrare che a volte la follia passa per il troppo ragionare, per il volersi opporre alle regole e il non voler accettare le cose per come vengono. La loro fuga è una ribellione alle imposizioni ma anche un viaggio nell’accettazione che non esiste altro luogo più sicuro ed accogliente di quello in cui sono accolte come malate perché trattate con umanità piuttosto che vivere nel mondo esterno dove sono state rifiutate d usate. La sottile linea tra follia e intelligenza viscerale vacilla più d’una volta mostrandone i lati più acuti ma anche lasciando intuire come forse, il vero assurdo sia nelle convenzioni e nella rincorsa al soldo e al potere. Nessuno spiega perché ad un certo punto s’impazzisca, quale sia l’interruttore spinto il quale non si torni più indietro e se sia più confortante adagiarsi nel riconoscimento di un’autorevole anormalità piuttosto che annaspare per dimostrare al mondo di avere le carte in regola. E quando il mondo le rifiuta, loro se ne servono fino in fondo.
Qualche forzatura nella sceneggiatura, diverse citazioni illustri da “Thelma & Louise” a “Ragazze interrotte” ma ad offuscare il tutto, l’eccellente prova d’attrice di Valeria Bruni Tedeschi che se nell’aspetto ricorda la più splendente Eleonora Giorgi, con la sua voce roca e il broncio accennato, domina la scena dal primo all’ultimo fotogramma, esplodendo in una miriade di sfumature umane da Actor’s Studio. Divertente, profonda, drammatica e lieve, perfetta. Come perfetta spalla è Michela Ramazzotti, fedele al personaggio trucido, unico contraltare per veicolare la vicenda. 
Forse“Nessuno ha mai trovato la felicità in un tramezzino”ma questo è un film che non può essere perso. 

domenica 17 aprile 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot


Di Gabriele Mainetti
Italia, 2015
Enzo Ceccotti è un criminale da strapazzo, senza famiglia e senza amici, dedito solo al budino alla vaniglia,  fino a quando non cade nel Tevere esponendosi, senza saperlo a delle misteriose radiazioni che gli conferiscono una forza sovrumana. La sua vita cambia, lentamente, incrociando il destino di Alessia, dello “Zingaro” e la sua Gang.
Che Gabriele Mainetti sia parte di quella generazione che Jeeg Robot lo ha visto inedito in tv, ogni pomeriggio da bambino, che abbia visto “Leon” ed “Arancia Meccanica” è fuori discussione, così come è chiaro che dirigendo Claudio Santamaria e Luca Marinelli non abbia sbagliato cast…ma che la sua sia un’opera prima da manuale, che il suo script non abbia momenti dubbi né veda una regia stanca, mai, conferma “Lo chiamavano Jeeg Robot” uno fra i film più intelligenti e soddisfacenti della stagione. Dotato di un ritmo incalzante che richiama il miglior “Frantic” con scene in equilibrio fra “Suburra” e “Gomorra”, ugualmente spietato ed efferato in più di una sequenza, non dimentica nemmeno per un momento di parlare di personaggi dal forte lato umano; dal protagonista fino all’ultima comparsa, ognuno mostra un carattere ben delineato che lo rende il piccolo centro di un universo di miseria. Tutti co-attori di una guerra tra poveri in cui la rincorsa alla celebrità nasce da una comparsata in televisione; la vera tragedia che sconvolge vite e menti facendo emergere le più recondite follie sanguinarie. Finalmente un eroe vero, così autentico da non aver bisogno di tuta né  mantello per desiderare di essere salvati da un abbraccio di disperazione che culmina nel compimento del proprio destino, al servizio di quella “gente” e di quel mondo che lo avevano rinchiuso tra quattro pareti luride. Non è mai troppo tardi per la vita né per l’amore ma l’eroe, si sa, non ha appello e come nella migliore delle tradizioni compie il suo destino vegliando la città dall’alto, tornando a quella stessa solitudine che l’ha visto protagonista.
La capacità di trasporre il Giappone post-nucleare di Go-Nagai in una Roma decadente, fatta di violenza alla luce del sole, esula dal rendere il panorama troppo partigiano e se un romano può apprezzare qualche chicca ambientale e linguistica in più, la storia si eleva al di sopra delle parti diventando un grido universale di rivincita verso un mondo che non può finire così.
Da un lato un Claudio Santamaria che recita col cuore in mano, mortificato nel fisico da un sovrappeso considerevole che lo rende eccellente nella sua essenza d’attore, dall’altro Luca Marinelli che ci aveva preparati a personaggi costruiti in maniera maniacale ma mai così perfetti nella loro istrionica detonazione. Begli attori, buon ritmo per un obbiettivo che non si poteva fallire: l’eroe per eccellenza, consacrato dentro e fuori lo schermo.
“Un’emozione da poco” reinterpretata da Marinelli è la perfetta espressione grottesca della follia mistificata in un momento di alto cinema altalenante tra il serio e il faceto. Altri momenti musicali rendono giustizia alla musica leggera italiana esplodendo qua e là con tutta la normalità consentita ad una scampagnata tra amici.

Imperdibile.