“Ci sono film che non si vedono su di uno schermo. Ci sono scene che sei obbligato a vivere e sulle quali non puoi chiudere gli occhi. Che ti porti dentro e che riaffiorano nei momenti di quiete, oppure, portate da una scintilla casuale. Ogni vita per miserevole che sia è l'unico vero film del quale saremo mai attori e registi. Nel quale non sempre riusciremo a decidere ruoli e finali ma che porteremo sempre con noi, impresso nella memoria più profonda, unica ed esclusiva. Nessuno potrà interpretarci né leggerci bene quanto potremo fare noi stessi che siamo i soli ad avere la visione più ampia e totale delle cose. Il nostro pianto, il nostro dolore, rimangono incisi più a fondo di qualunque altra gioia perché è solo da questi che può nascere la forza di reagire. La nostra carezza più intima sarà il ripercorrere questi fatti scandalosi o tragici con la tenerezza di chi segue fatti destinati ad essere, con la sola certezza che siano inevitabili. Essere per continuare ad essere.”

lunedì 28 gennaio 2013

Arrivederci ragazzi

di Louis Malle
Francia, 1987

Un collegio francese per affrontare il dramma della deportazione ebraica.

Bonnet, non è un ragazzo come gli altri; viene protetto dai frati sotto falsa identità in quanto ebreo.
Il benestante Julienne dapprima lo osteggia, poi ne diventa amico.

Malle ci fa vivere una storia di amicizia in tempi di paura, presentandola tra le gelide mura di un convento, immerso nel gelo della Francia della seconda Guerra Mondiale. Freddo fra le mura, freddo fuori, ma soprattutto freddo negli animi dei protagonisti, L'angoscia di Bonnet di nascondersi, per un destino che ha già visto risucchiare entrambi i genitori, trasmette la forte contraddizione del voler sopravvivere alla Shoah, ma di non saper in fondo con quali prospettive. Giorno per giorno si avvicina la probabilità di essere liberato dal giogo nazista ma nella sequenza dell'incursione nella scuola, la sua arrendevolezza dimostra una remissione disarmante alla fuga. Il ragazzo smette di nascondersi e lo fa con una dignità commovente; ripone le penne nell'astuccio, chiude i libri, prende la mantella e stringe la mano ai compagni. C'è una tale voglia di difenderlo, di gridare "Fermi!" e restituire un'infanzia a quel ragazzo che sembra vecchio di secoli, piegato sotto il peso del suo segreto che mentre viene scortato fuori dall'aula sorge un tale senso di frustrazione che diventa insopportabile.
Il fatto che quella narrata sia una storia vera e che prima dei titoli di coda si venga informati della morte dei protagonisti nei campi di sterminio, rende ancora più triste la visione, fino a quel momento accompagnata cmq da un misto di leggerezza per il racconto di storie di ragazzi. Ragazzi che si intuisce avessero già perso la loro età con l'orrore della guerra ma che non stentavano a recuperarla ad ogni battito d'ali.
Malle è asciutto, spietato, incisivo e la sua storia rimane sul cuore come una pietra troppo pesante.

Ogni volta che mi confronto con un film sulla seconda Guerra Mondiale, provo un senso di appartenenza misto ad una voglia di ricerca e di approfondimento forse perchè quelle storie sono state parte dei miei racconti di bambina ad opera di chi, quei fatti, li aveva vissuti veramente. Mi sento rappresentata, pur vivendo ed avendo vissuto in un'altra epoca e la disperazione dei protagonisti, così come la gioia estrema di altri, le faccio mie.
Ampissima la filmografia sull'epoca nazi-fascista ma di qualunque film si tratti, più o meno alto, raramente non vi si riesce a trovare un senso.
Per non dimenticare.

domenica 6 gennaio 2013

Edward Mani di Forbice




Di Tim Burton
USA ‘90
La rappresentante di cosmetici Peg incontra per caso Edward, solo e spaurito abitante di un castello diroccato e lo porta a vivere con sé. Ben presto la comunità vorrà conoscerlo e lo coinvolgerà suo malgrado in fatti più grandi di lui. Peg non potrà difenderlo e nemmeno l’amore per la di lei figlia Kim
Edward Mani di forbice è l’apologo della diversità e dell’amore puro.
Il personaggio di Edward, asessuato ed efebico è interpretato in maniera indescrivibile da un giovane Jhonny Depp che si mette in un luce per delle eccellenti doti di mimica poi ulteriormente espresse in “Benny & Joon” ; recitare i tre quarti del copione col viso coperto da una spessa machera di cerone, parlando appena,  esprime una grande sensibilità. La vita data al suo personaggio è quella di un essere senza spazio e tempo che “non distingue il bene dal male”; è un puro che come tale non si discolpa né trama ma agisce per puro istinto per il bene dei suoi cari. In ogni momento di difficoltà Edward non lotta, andando incontro ad accuse spesso infondate; non si difende neppure quando è in pericolo la sua incolumità ma quando vede colpire la sua amata, diventa uno spietato assassino e il suo tenero sguardo si trasforma in fissi occhi di ghiaccio.
Quando Kim gli dichiara il suo amore, Edward si lascia penetrare da quella frase come aria pura, ed osservandolo, si ha la certezza che sarà il suo unico alimento per il futuro. Vivrà di quel momento, in una gioia fatta di ricordo, nell’unico mondo per lui possibile, quello del castello e del giardino di sculture.
E’ facile parlare di Edward come di un emarginato o un diverso. Tim Burton utilizza lo stridente contrasto tra i colori pastello e forme standardizzate della cittadina in cui vivono Peg e la sua famiglia e i colori cupi e le architetture gotiche del palazzo dove vive Edward, per porre la prima barriera tra lui e il mondo. Per evidenziare agli occhi del pubblico la sua differenza in maniera netta; cosa che diventa via via sempre più evidente man mano che la storia procede, tralasciando l’iniziale impatto visivo. Il conformismo degli abitanti del quartiere, il loro essere coralmente congiunti in un sottinteso patto di alleanza fra mediocri, risalta ancor di più all’arrivo di Edward che, come tutte le novità, dapprima attira curiosità, poi attenzione ed entusiasmo e poi invidia. La parabola umana del comportamento di massa è espressa palesemente attraverso comportamenti di copying e di ricerca dell’esclusività nel rapporto col forestiero, senza mai comunque trattarlo molto diversamente dai cani da compagnia o da un bambino. L’attenzione nei suoi riguardi è una mera rincorsa all’individualismo non attraverso l’emersione delle singole caratteristiche, ma attraverso l’accaparramento del diverso che inizialmente è considerato à la page. Quando poi, il comune senso del pudore e della morale vengono scossi da azioni inattese da parte di Edward, coinvolto dalla violenza umana suo malgrado, inizia la caccia alle streghe che si concluderà con la fuga del ragazzo.
Al poliziotto di colore, o come direbbe qualcuno, al nero emancipato, quasi una profezia dell’attuale Presidente  americano, è affidato il ruolo di amministrare la giustizia terrena ed extraterrena, accorgendosi, lui solo, del valore di Edward. “Potrei restare sveglio tutte le notti pensando a te” è la frase con la quale lo saluta, rilasciandolo dalla prigione, dopo aver capito che è solo un agnello in un mondo di lupi. E’ l’unico a distinguere ciò che realmente accade e a non farsi distogliere dal frastuono di voci e colori che si agita intorno al lui.
I personaggi del quartiere sono fumettisticamente perfetti. I colori, gli atteggiamenti, i gesti; da quello che dicono a come lo fanno sono la perfetta rappresentazione dell’ipocrita società che ciò che non può fagocitare, distrugge.
La scelta non casuale della notte di Natale, per concludere la vicenda, rispecchia ancor di più la falsità della popolazione, pronta a festeggiare la festa della bontà, adorna di lustrini e luci colorate, ma senza tirarsi indietro se c’è da puntare il dito o se si ha la possibilità di appagare la propria morbosa curiosità fino a lavare le mani nel sangue altrui, pur di non perdersi “le ultime notizie”.
Tim Burton realizza un film perfetto, del quale cura anche le scenografie che ne portano la firma. La massima espressione si concentra nel castello, dalla lunga scala centrale ricca di ghirigori che troveranno poi ulteriore espressione in “Tim Burton’s Nightmare before Xmas” e ne “La sposa cadavere”, alla macchina per fare biscotti che ritroveremo sotto altre spoglie ne “La fabbrica di cioccolato”. Inutile sottolineare la somiglianza fra lui stesso ed Edward, suo alter ego per gridare la propria intolleranza verso il mondo.
Il cameo di Vincent Price quale inventore e padre di Edward arricchisce la storia dell’interpretazione del rapporto padre-figlio quale si auspicherebbe che fosse: non solo generazione dell’individuo, ma cura della sua persona, istruzione e moralità. La tenerezza con la quale cura la sua creatura a partire dall’idea che nasce da un cuore di biscotto, per finire con quelle mani, mai terminate, è una deliziosa pennellata d’umanità. 
Chiunque si sia sentito un alieno, anche solo una volta nella vita, non può non amare questa favola romantica che tocca tutte le note dei sentimenti più profondi e lo fa in maniera tanto delicata da commuovere alle lacrime. Impossibile non amare da subito Edward e tantomeno rimanere impassibili di fronte alla sua indifesa voglia di vivere e di adattarsi ad un mondo che prova a cambiarlo da subito senza mai realmente comprenderne l’essenza. L’amore che si prova per lui è qualcosa di atavico che risiede nell’incapacità di opporci al conformismo e nella paura di trovarci dall’altra parte della barricata a dover fronteggiare una folla, da soli, per difendere le nostre idee. Lui lo fa suo malgrado e per questo è condannato a vivere da solo tutta la vita, ma la sua prigione è la sua libertà. Il castello non è un universo chiuso dal cancello ma un  mondo meraviglioso in cui non è dato entrare perché nessuno è tanto puro dal poterlo fare.
Edward è un sogno di pace e serenità che persiste nel tempo e che consegna all’immaginario collettivo un antieroe immortale che non conosce decadenza né morte.