“Ci sono film che non si vedono su di uno schermo. Ci sono scene che sei obbligato a vivere e sulle quali non puoi chiudere gli occhi. Che ti porti dentro e che riaffiorano nei momenti di quiete, oppure, portate da una scintilla casuale. Ogni vita per miserevole che sia è l'unico vero film del quale saremo mai attori e registi. Nel quale non sempre riusciremo a decidere ruoli e finali ma che porteremo sempre con noi, impresso nella memoria più profonda, unica ed esclusiva. Nessuno potrà interpretarci né leggerci bene quanto potremo fare noi stessi che siamo i soli ad avere la visione più ampia e totale delle cose. Il nostro pianto, il nostro dolore, rimangono incisi più a fondo di qualunque altra gioia perché è solo da questi che può nascere la forza di reagire. La nostra carezza più intima sarà il ripercorrere questi fatti scandalosi o tragici con la tenerezza di chi segue fatti destinati ad essere, con la sola certezza che siano inevitabili. Essere per continuare ad essere.”

sabato 24 febbraio 2018

The shape of water

di Guillermo Del Toro
USA, 2017

Meno favoloso del mondo di Amelie, più realistico di Edward Manidiforbice. "The shape of water" attinge alla cinematografia più ricca sui freaks, a partire dal soggetto clonato dal "mostro della palude", per arrivare alla scena conclusiva che tanto ricorda quella di "Lezioni di piano". 
La sceneggiatura non perde occasione per confermare tutte le certezze dello spettatore, senza un colpo di scena che sia uno, nè i personaggi sorprendono, ben radicati nei loro clichè, eppure...
...eppure è un film da vedere, non per tutti i premi ai quali è ed è stato candidato o che ha vinto, ma perchè è girato con fine maestria. Sorvolando su ambientazione e fotografia da dieci e lode, resta il fatto che Guillermo Del Toro è un cineasta che di cinema ne sa; sa perfettamente che ciò che conta non è cosa racconti ma come lo fai. Sa esattamente su quali emozioni intervenire e come assortirle in quelle due ore. Dal riso al pianto, passando per la paura, coinvolge e stravolge con quel fare strisciante che dilaga, come un pianto dirotto e inarrestabile, sui titoli di coda.Consegna al cinema un apologo del diverso non già emarginato e doloroso come "The elephant man" ma consapevole di sè e del mondo. I suoi personaggi sono tante facce di una stessa medaglia, una schiera di diversi che si incontrano su di un unico ring e si affrontano senza esclusione di colpi, in un gioco al massacro in cui le vittime si fanno carnefici e le spie diventano eroi. Elisa, muta e bruttina, trasuda sex-appeal dopo aver incontrato l'amore, derapando dalla routine perchè ha abbracciato la sua missione, così come Dimitri e Giles. Non serve dunque una disabilità propria o di chi ci è accanto per capire che basta molto meno per essere outsiders; basta smettere di lottare o farsi mettere da parte. Si sceglie di essere ai margini continuando a vivere con coerenza.

Chi stabilisce cosa è diverso?

Da vedere.


giovedì 22 settembre 2016

Perfetti sconosciuti


Di Paolo Genovese
Italia, 2016
Sette amici si incontrano a cena e la complicità, la noia o forse la curiosità li portano a fare un gioco che ne metterà a rischio le rispettive esistenze…forse.
Lele, Carlotta, Peppe, Bianca, Eva, Rocco e Cosimo non sembrano avere molto da nascondere eppure, condividere chiamate e messaggi ricevuti durante la cena sui propri cellulari, scoprirà un mondo nascosto dentro ognuno di loro.
Paolo Genovese apre le porte della “scatola nera” dell’italiano medio, il cellulare, attribuendogli un potere assoluto e catartico, in grado di tracciare il profilo del possessore fino a diventarne possessore a sua volta. Il proprietario posseduto e quindi schiavo dei segreti contenuti in una Sim: foto, numeri, conversazioni, persone virtuali che esistono grazie al potere esercitato sui riceventi. Un potere sempre più grande quanto più estremi sono i segreti che cela. Ma se per gioco, durante il tempo di un’eclisse, i misteri dovessero venire a galla in un gioco al massacro, nessuno sarebbe più lo stesso. “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, laddove il peccato risulta il convenzionalismo che rende schiavi al punto che la trasgressione è la ricerca di libertà. Sette personaggi, cinque coinvolti ed invischiati in intrecci morbosi, uno saggio e poi Bianca; la quint’essenza di quella libertà, ingenuità e trasparenza che dovrebbe restarci attaccata addosso per la vita e che invece perdiamo inquinati dai vizi che ci accadono strada facendo. Un gioco al massacro che coinvolge e sconvolge i protagonisti in un “Carnage” più bonario della versione di Polanski ma che punta ugualmente il dito contro manie e fobie del nostro tempo. Man mano che l’eclisse si compie i misteri crescono e detonano fino a far piazza pulita di ciò che rimane dei buoni sentimenti ma col suo finire ecco che magicamente si piomba in uno stato onirico indefinito tanto e tale da pensare “sogno o son desto”? La realtà si confonde con “il sarebbe potuto accadere” e lascia il dubbio allo spettatore su cosa nella vita sia necessario: convenzioni o verità. Io non ho dubbi e voi?

Un plot già visto e forse eccessivo ma mai assurdo. Un cast compatto ed affiatato, una boccata d’aria fresca con attori perfetti nella loro normalità. Bravi.

mercoledì 1 giugno 2016

La pazza gioia

di Paolo Virzì
Italia, 2016

Beatrice è bionda, ricchissima e raffinata. Donatella è bruna, tatuata e povera. Cosa le unisce? Sono pazze!
O almeno “ritenute tali da alcune perizie”. Chiuse in un centro riabilitativo nella campagna Toscana, stringono un’amicizia fatta di contrasti e incomprensioni, di profonde differenze d’estrazione sociale ed educazione ma solida. Al punto da fuggire insieme in un’avventura rocambolesca che le porterà da una cittadina all’altra in cerca della felicità.
Virzì ha fatto il salto, già da qualche anno e sebbene i suoi film mantengano alcuni stralci di leggerezza, ormai vanno a fondo e tagliano più di una lama affilata. “La pazza gioia” condensa alcuni tra i temi più commoventi dell’essere umano: maternità, depressione, solitudine, emarginazione e lo fa descrivendo un microcosmo alieno ma regolato dalle stesse regole della società “reale”. La storia non è troppo originale e i panorami sono noti ai suoi spettatori ma la precisione certosina con la quale sono costruiti i personaggi, tutti, compresi le comparse e i camei illustri come Anna Galiena e Marco Messeri, rendono questa pellicola una piccola gioia per gli occhi e per l’anima che commuove profondamente e diverte. Diverte la leggiadra follia di Beatrice, contessa mai dimentica del ruolo che resta capricciosa e viziata anche tra le mura sudicie del centro, convinta che la vera felicità sia nelle cose belle; commuove la solitudine di Donatella, nata sfortunata che paga le scelte di pancia che ha fatto fino a quel momento e se le porta scritte addosso e nel cuore. Entrambe però lucide ed intelligenti, a dimostrare che a volte la follia passa per il troppo ragionare, per il volersi opporre alle regole e il non voler accettare le cose per come vengono. La loro fuga è una ribellione alle imposizioni ma anche un viaggio nell’accettazione che non esiste altro luogo più sicuro ed accogliente di quello in cui sono accolte come malate perché trattate con umanità piuttosto che vivere nel mondo esterno dove sono state rifiutate d usate. La sottile linea tra follia e intelligenza viscerale vacilla più d’una volta mostrandone i lati più acuti ma anche lasciando intuire come forse, il vero assurdo sia nelle convenzioni e nella rincorsa al soldo e al potere. Nessuno spiega perché ad un certo punto s’impazzisca, quale sia l’interruttore spinto il quale non si torni più indietro e se sia più confortante adagiarsi nel riconoscimento di un’autorevole anormalità piuttosto che annaspare per dimostrare al mondo di avere le carte in regola. E quando il mondo le rifiuta, loro se ne servono fino in fondo.
Qualche forzatura nella sceneggiatura, diverse citazioni illustri da “Thelma & Louise” a “Ragazze interrotte” ma ad offuscare il tutto, l’eccellente prova d’attrice di Valeria Bruni Tedeschi che se nell’aspetto ricorda la più splendente Eleonora Giorgi, con la sua voce roca e il broncio accennato, domina la scena dal primo all’ultimo fotogramma, esplodendo in una miriade di sfumature umane da Actor’s Studio. Divertente, profonda, drammatica e lieve, perfetta. Come perfetta spalla è Michela Ramazzotti, fedele al personaggio trucido, unico contraltare per veicolare la vicenda. 
Forse“Nessuno ha mai trovato la felicità in un tramezzino”ma questo è un film che non può essere perso. 

domenica 17 aprile 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot


Di Gabriele Mainetti
Italia, 2015
Enzo Ceccotti è un criminale da strapazzo, senza famiglia e senza amici, dedito solo al budino alla vaniglia,  fino a quando non cade nel Tevere esponendosi, senza saperlo a delle misteriose radiazioni che gli conferiscono una forza sovrumana. La sua vita cambia, lentamente, incrociando il destino di Alessia, dello “Zingaro” e la sua Gang.
Che Gabriele Mainetti sia parte di quella generazione che Jeeg Robot lo ha visto inedito in tv, ogni pomeriggio da bambino, che abbia visto “Leon” ed “Arancia Meccanica” è fuori discussione, così come è chiaro che dirigendo Claudio Santamaria e Luca Marinelli non abbia sbagliato cast…ma che la sua sia un’opera prima da manuale, che il suo script non abbia momenti dubbi né veda una regia stanca, mai, conferma “Lo chiamavano Jeeg Robot” uno fra i film più intelligenti e soddisfacenti della stagione. Dotato di un ritmo incalzante che richiama il miglior “Frantic” con scene in equilibrio fra “Suburra” e “Gomorra”, ugualmente spietato ed efferato in più di una sequenza, non dimentica nemmeno per un momento di parlare di personaggi dal forte lato umano; dal protagonista fino all’ultima comparsa, ognuno mostra un carattere ben delineato che lo rende il piccolo centro di un universo di miseria. Tutti co-attori di una guerra tra poveri in cui la rincorsa alla celebrità nasce da una comparsata in televisione; la vera tragedia che sconvolge vite e menti facendo emergere le più recondite follie sanguinarie. Finalmente un eroe vero, così autentico da non aver bisogno di tuta né  mantello per desiderare di essere salvati da un abbraccio di disperazione che culmina nel compimento del proprio destino, al servizio di quella “gente” e di quel mondo che lo avevano rinchiuso tra quattro pareti luride. Non è mai troppo tardi per la vita né per l’amore ma l’eroe, si sa, non ha appello e come nella migliore delle tradizioni compie il suo destino vegliando la città dall’alto, tornando a quella stessa solitudine che l’ha visto protagonista.
La capacità di trasporre il Giappone post-nucleare di Go-Nagai in una Roma decadente, fatta di violenza alla luce del sole, esula dal rendere il panorama troppo partigiano e se un romano può apprezzare qualche chicca ambientale e linguistica in più, la storia si eleva al di sopra delle parti diventando un grido universale di rivincita verso un mondo che non può finire così.
Da un lato un Claudio Santamaria che recita col cuore in mano, mortificato nel fisico da un sovrappeso considerevole che lo rende eccellente nella sua essenza d’attore, dall’altro Luca Marinelli che ci aveva preparati a personaggi costruiti in maniera maniacale ma mai così perfetti nella loro istrionica detonazione. Begli attori, buon ritmo per un obbiettivo che non si poteva fallire: l’eroe per eccellenza, consacrato dentro e fuori lo schermo.
“Un’emozione da poco” reinterpretata da Marinelli è la perfetta espressione grottesca della follia mistificata in un momento di alto cinema altalenante tra il serio e il faceto. Altri momenti musicali rendono giustizia alla musica leggera italiana esplodendo qua e là con tutta la normalità consentita ad una scampagnata tra amici.

Imperdibile.

venerdì 25 settembre 2015

Non essere cattivo


Di Claudio Caligari
ITA 2015
Ostia 1995, Vittorio e Cesare sono amici dall’infanzia e da sempre condividono una vita di sballo, piccoli crimini e acidi.
Vivono la notte ad alta velocità, con compagni d’avventura della stessa risma, facendo comunque capo a loro stessi: Vittorio per Cesare e Cesare per Vittorio. Vite drammatiche alle spalle, nessun appello per una vita migliore, solo la strada e la notte.
Ma un giorno, quando Vittorio supera ogni limite e sembra perduto, capisce che è arrivato il momento di smettere. La via della riabilitazione non sarà semplice né certa; non è facile chiudere la porta al passato e non si possono dimenticare gli amici.
Film di Claudio Caligari, recentemente scomparso, “Non essere cattivo”  è considerabile un omaggio a Pasolini e ai suoi “Ragazzi di vita”, perché racconta dell’ultima generazione di veri disperati, prima dei flussi migratori, prima della crisi, prima che l’Italia stessa cambiasse. Caligari parla di fatti noti, la sua vicenda non è originale ma ci torna a far pensare ad una generazione cresciuta sul niente, dal niente. Senza ideali e senza speranza, in cerca del “lavoretto” facile, capace di ridere al bar di una rapina malriuscita con la stessa leggerezza di chi suona a citofoni sconosciuti e scappa via. Il film descrive un’umanità cattiva per forza che nel suo microcosmo ci sta bene perché non conosce alternativa e che, nonostante i crimini, mantiene la spensierata esigenza di una partita a pallone con gli amici sulla spiaggia. Solo il confronto con i buoni, quelli che si spezzano la schiena e sopravvivono onestamente,  riesce a compiere il miracolo ed arrivare al cuore di qualcuno di loro. Troppo spinto il contesto descritto? Troppo esagerate le vite dei protagonisti? Forse è solo la verità ed a volte, può superare la finzione ma il regista non ci abbandona senza un briciolo di speranza o almeno è ciò che sembra. Un film violento non solo nei fatti narrati ma nel forte senso di disperazione e di ineluttabilità che trasuda, sul quale però veglia forte il sentimento genuino di amicizia che sopravvive a qualunque dramma.
Potenti i personaggi, Cesare (Luca Marinelli) e Vittorio (Alessandro Borghi), differenti facce di una stessa medaglia, così diversi eppure così uguali.
In ogni essere umano alberga il bisogno di affetto, anche nel più efferato ed è questo il messaggio che trapela, lasciando una possibilità ad ognuno di noi.

Da vedere perché racconta un pezzo di storia del nostro paese, ben fatto e ben narrato. Sarebbe bello però che certe opere avessero il loro riconoscimento anche prima di diventare postume. 

venerdì 19 giugno 2015

Tale of tales


Di Matteo Garrone
Una regina sterile, Un re passionale ed un Padre infantile. E ancora morte, nascita, mistero ed inganno. Ma anche trasformazione, riscatto e giustizia.
Tre racconti che s’incastonano nella tradizione letteraria italiana del diciassettesimo secolo e che, attraverso draghi, principesse ed incantesimi, raccontano l’umanità sullo sfondo dell’ineluttabilità dei fatti.
Tratto da “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile, narratore raffinato ma rivolto al volgo, associato al Boccaccio per la coralità e circolarità dei suoi racconti, “Il racconto dei racconti” è il primo film internazionale di Garrone. Dopo aver raccontato le miserie umane (Primo amore, L’imbalsamatore) e poi l’Italia (Gomorra, Reality), realizza una pellicola dal sapore internazionale girando in inglese e chiamando grandi nomi fra cui Salma Hayek, Vincent Cassel e John C. Reilly. Il film funziona molto bene grazie a tre racconti in equilibrio tra il fantastico e il cruento che non risparmiano sangue e massacri, narrando di un tempo che fu, in cui la vita era davvero così. Una regina in cerca di un figlio si affida ad un mago sacrificando il suo re. Un re sciocco dà la figlia in sposa ad un orco per gioco. Due sorelle batteranno la vecchiaia sacrificando la vita. Tutto ha un senso e tutto torna nella narrazione dell’assurdo. Un grande esordio per una pellicola che è una inconfutabile dichiarazione d’amore all’Italia e alla sua storia; le scenografie sono realizzate con interni fastosi ed esterni magici di castelli e regge italiani: Castel Del Monte, Roccascalegna e il Castello reale di Napoli.  Affidando camei ad attori italiani (Alba Rohrwacher e Massimo Ceccherini) non si taglia il filo sottile d’affezione per le proprie origini ma la potenza interpretativa delle grandi star che riescono a diventare piccole in onore della narrazione è tanta. Godibilissimo il personaggio i Vincent Cassel.
L’impatto visivo e le scelte cromatiche delle messe in scena, dalla regina nera su sfondo immacolato che pasteggia con un cuore insanguinato, alla giovane diafana dai capelli rossi nella foresta, sono un richiamo alla pop-art la prima e un omaggio a Klimt la seconda.
Chi ha criticato Garrone per aver “raccontato solo una storia” non ha compreso la sua opera: un grande film in cui la regia diventa esercizio di stile. Lo sa fare e lo fa bene.

Da vedere.

sabato 16 maggio 2015

Mia Madre

Di Nanni Moretti
Italia, 2015
Margherita e Giovanni sono fratelli, professionisti affermati alle soglie della mezza età. Le loro vite sbandano alla notizia che la madre Ada sta affrontando l’ultima malattia che la porterà alla morte. Ognuno col suo carattere e con le sue debolezze affronterà il verdetto, attraverso un lento percorso di accettazione della fine.
Ultima fatica di Nanni Moretti, presentato a Cannes 2015, “Mia madre” è un dolente spaccato del quotidiano, quando la routine viene intaccata da una diagnosi inoppugnabile. Di fronte alla morte c’è solo la possibilità di accettarne l’evento ma chi può dirsi pronto a misurarcisi? Nevrotica ed impulsiva Margherita, metodico e silenzioso Giovanni, i due si ritrovano al capezzale della madre impegnandosi, ognuno con le sue possibilità, ad accompagnarla con la maggior levità e serenità possibile. Ma non ce la fanno. Entrambi detonano ripiegandosi sull'amore per la madre come se null'altro contasse: Giovanni rinuncia a tutto pur di non perdere un attimo degli ultimi giorni di Ada, come se anche la sua vita finisse con lei. Margherita no. Margherita è stata una cattiva figlia; molto diversa dalla madre, mai completamente compresa. Non è stata in grado di costruire un dialogo e il suo dolore esplode nella realizzazione che non c’è più tempo per recuperare. Sfinita da veglie notturne in Terapia Intensiva, è incapace di trovare argomenti nonostante la madre continui a seguirla con sguardo amorevole come deve aver fatto per tutta la vita. Ma lei non se ne accorge e riversa la sua frustrazione sul lavoro, in estenuanti maratone sul set, di riprese che porta avanti senza convinzione. Il dramma familiare non ferma la vita che scorre intorno, così si ritrova ad averne due: una dentro e una fuori l’ospedale.
Nanni Moretti sa raccontare la morte; l’ha già dimostrato ne “La stanza del figlio” e in “Caos calmo”. Anche questa volta lo fa spiegando l’assenza, il vuoto che rimane dopo che una persona ci lascia. Un figlio, una compagna, un genitore; un’escalation di dolore che si avvita su sé stessa per un ritorno all'origine, nella constatazione che quando il momento arriva, a chi resta, manca la terra sotto i piedi, il punto di riferimento, anche quando il rapporto è stato conflittuale o doloroso. A volte c’è bisogno anche di quel conflitto e di quel dolore per rendere le vite più reali. Margherita Buy riesce a tradurre ancora una volta il pensiero dell’autore, con un’interpretazione di grande sensibilità, confermandosi attrice feticcio di Moretti, in questa pellicola, addirittura suo alter ego.
Un film intenso, fatto di quella normalità che rende la celluloide più vera, alla quale il regista romano ci ha abituato da anni. Questa volta però velato di un’energia positiva che filtra da Ada, inizialmente fragile e confusa ma in un secondo tempo serena; sarà la sua tranquillità a dare ai figli la forza di reagire, suggerita nell'ultima scena da un sorriso di Margherita agli amati libri della madre, anch'essi orfani. Una storia come tante che diventa un momento di riflessione personale e collettivo, nel quale trovano spazio sprazzi comici del tutto contestualizzati perché la vita può essere così, dolce e amara.
Cameo godibilissimo per John Turturro che punta il dito contro la vacuità della società delle immagini.

Commovente.